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Algeria Pace e Diritti Politica e Società
La riforma in vigore dal 5 maggio
Algeria: il nuovo Codice penale rafforza la repressione
Gli emendamenti approvati prevedono pesanti sanzioni contro chi divulga documenti riservati sui social network o all'estero e chi mina la morale dell'esercito. Nessuna modifica gli articoli relativi al reato di terrorismo e minaccia all’unità nazionale che si prestano a un’ampia interpretazione di ciò che è “atto terroristico o eversivo”
09 Maggio 2024
Articolo di Nadia Addezio
Tempo di lettura 4 minuti

Più che preoccupazione, quella del regime algerino guidato da Abdelmadjid Tebboune e sostenuto dal sempiterno esercito nazionale sembrerebbe una vera e propria ossessione verso la sicurezza dello stato. A solleticare questa idea, la riforma del Codice penale entrata in vigore il 5 maggio.

Pubblicata in Gazzetta ufficiale il 30 aprile, l’ordinanza n. 24-06 del 28 aprile 2024 modifica e integra l’ordinanza n. 66-156 dell’8 giugno 1966 che reca il Codice penale, adottando degli emendamenti che potrebbero ledere ulteriormente alcuni diritti fondamentali.

Come l’articolo 63bis che prevede che sia accusato di tradimento e punito con l’ergastolo “ogni algerino che rivela informazioni riservate o documenti relativi alla sicurezza nazionale e/o difesa nazionale e/o l’economia nazionale attraverso i social network a vantaggio di un paese straniero o di uno dei suoi agenti”.

Lo segue l’articolo 63bis 1 che punisce con una reclusione da 20 a 30 anni “chiunque riveli informazioni riservate […] al fine di nuocere agli interessi dello Stato algerino o alla stabilità delle sue istituzioni”. Rispetto a questi due articoli, è immediato ricordare i casi del giornalista Mustapha Bendjama e del ricercatore in geopolitica Raouf Farrah.

Sono previste sanzioni anche per chi intenda offendere la morale dell’Esercito popolare nazionale o altri corpi di sicurezza “per danneggiare la difesa o la sicurezza del paese” (art.75).

Definizione vaga di terrorismo

E poi, nonostante gli appelli lanciati a dicembre dalla relatrice speciale ONU per i difensori dei diritti umani, Mary Lawlor, affinché fossero modificati gli articoli del Codice penale relativi al reato di terrorismo e minaccia all’unità nazionale, le richieste non sono state esaudite.

Infatti, articoli controversi come l’87bis sono rimasti intatti: introdotto nel giugno 2021 con l’ordinanza n. 21-08, tale articolo dilatò la definizione di “terrorismo”, ritenendo atto terroristico o sabotaggio “qualsiasi atto volto alla sicurezza dello Stato, all’unità nazionale, alla stabilità e al normale funzionamento delle istituzioni […]”.

Il Cairo Institute for Human Rights Studies nel Global study on the impact of counter-terrorism measures on civil society and civic space in Algeria faceva presente come questa definizione rappresentasse uno dei maggiori dilemmi legali per delimitare lo status penale delle persone classificate come terroriste.

Ai sensi dell’articolo 87bis, dell’87bis 3 – relativo all’affiliazione a organizzazioni “il cui scopo o attività rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 87bis” e che punisce con l’ergastolo – e dell’87bis 13 – riguardante l’elenco nazionale di individui ed entità (supposte) terroristiche – molti/e attivisti/e e giornalisti/e sono stati/e arrestati e si trovano in prigione.

Caso Bouraoui

L’articolo 175bis 1 sembrerebbe essere un chiaro riferimento all’affaire Amira Bouraoui. In particolare, si legge nel testo di legge che “è punito con la reclusione da 1 a 3 anni e con la multa da 100mila a 300mila dinari algerini lo straniero algerino o residente che lascia il territorio nazionale in modo illecito o che tenti di farlo, sottraendo l’identità altrui durante il transito […] o utilizzando documenti falsificati o qualsiasi altro mezzo fraudolento […]”.

Al paragrafo 2 si fa presente che sarà punito “chiunque agevoli o tenti di agevolare, direttamente o indirettamente, gli atti citati dal presente articolo”. Viene introdotta una novità all’articolo 5bis 7, ovvero il braccialetto elettronico per sorvegliare i detenuti, in sostituzione della pena detentiva, che abbiano commesso un reato che non superi i 5 anni di reclusione.

Antefatti della riforma 

Nella 41esima sessione dell’Esame Periodico Universale (UPR), a novembre 2022, il ministro della Giustizia Abderrachid Tebbi presentava il Rapporto nazionale dell’Algeria sui diritti umani nel paese. In tale occasione, gli USA chiesero l’abrogazione dell’articolo 87bis c.p e il rilascio dei detenuti d’opinione.

Tebbi rispose – riporta il giornale algerino TSA – che: «Il terrorismo sfrutta gli spazi di libertà e talvolta usa la facciata dei diritti umani. L’Algeria considera la lotta al terrorismo come una guerra per la difesa della democrazia e dei diritti umani, e non per limitarli».

Sulla base di queste convinzioni, a febbraio scorso fu adottato dall’Assemblea popolare nazionale (APN, la camera bassa del parlamento) il disegno di legge che modifica e integra l’ordinanza n.66-156 sul Codice penale.

Il ministro Tebbi presentò a marzo una proposta di modifica, prefissandosi l’obiettivo di «modernizzare il Codice penale per rispondere meglio alle sfide attuali in termini di sicurezza e giustizia», riporta El Watan. Il 2 aprile scorso, il Consiglio della nazione (la camera alta) ha adottato il testo di legge.

La Commissione Affari Giuridici del Consiglio ha detto della riforma: «è di grande importanza nel processo di costruzione della nuova Algeria che avanza a passi sicuri verso l’effettiva consacrazione dello Stato di diritto […] e che ha permesso di istituire un sistema di garanzia della tutela dei diritti e delle libertà».

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Gibuti Salute Tecnologia
Avviato un programma di rilascio di maschi con geni manipolati per impedire la riproduzione delle femmine
Gibuti: contro la malaria zanzare geneticamente modificate
24 Maggio 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti
Femmina di zanzara del genere Anopheles stephensi

Zanzare geneticamente modificate rilasciate nell’ambiente per combattere la diffusione della malaria. È quanto avvenuto ieri ad Ambouli, un sobborgo della città di Gibuti, dove sono state liberate decine di migliaia di zanzare maschio del genere Anopheles stephensi, ma con geni modificati.

Partendo dal presupposto che solo le femmine trasmettono la malaria e altre malattie virali, Oxitec, società di biotecnologia con sede nel Regno Unito – finanziata dalla Bill & Melinda Gates Foundation -, ha sviluppato zanzare maschio portatrici di un gene che, dopo l’accoppiamento, impedisce alle larve delle femmine di sopravvivere fino all’età adulta.

La diffusione di questo primo gruppo di maschi rappresenta l’avvio della fase pilota di un progetto di collaborazione tra Oxitec, il governo di Gibuti e l’ong Association Mutualis, nell’ambito del più ampio programma Djibouti Friendly Mosquito, avviato per fermare la diffusione dell’Anopheles stephensi, una specie invasiva di origini asiatiche, rilevata per la prima volta nel paese nel 2012 e presente anche in Etiopia, Somalia, Kenya, Sudan, Nigeria e Ghana.

Se questa prima fase avrà successo, il rilascio di zanzare modificate continuerà fino al prossimo anno a Gibuti, per ampliarsi poi ad altri paesi dell’Africa orientale, regione che sperimenta per la prima volta questo tipo di approccio alla lotta alla malaria.

Il primo rilascio nell’ambiente di zanzare geneticamente modificate nel continente era avvenuto in Burkina Faso nel 2018, ma in quel caso si trattava del genere Anopheles gambiae e i maschi non potevano riprodursi. Anche in quel caso il progetto era finanziato (per 70 milioni di dollari) dalla Fondazione Bill e Melinda Gates.

La diffusione nell’ambiente di insetti con geni modificati in laboratorio è un tema controverso e da tempo dibattuto anche in Africa, e vede contrari gruppi ambientalisti, preoccupati per le possibili conseguenze sugli ecosistemi e sulle catene alimentari.

Sentito dalla BBC il presidente di Oxitec, Gray Frandsen, ovviamente rassicura, garantendo che in oltre 10 anni di programmi di questo tipo “non sono stati documentati effetti negativi sull’ambiente o sulla salute umana”.

Secondo il Centro statunitense per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC), dal 2019 più di un miliardo di zanzare di questo tipo sono state rilasciate in tutto il mondo con successi riscontrati in Brasile, India, Panama e Isole Cayman.

La malaria è una malattia mortale la cui diffusione nel mondo, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, è in aumento con 249 milioni di contagi e 608mila morti nel 2022, il 90% dei quali registrati nell’Africa subsahariana. L’80% di queste 580mila vittime sono bambini sotto i 5 anni.

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Politica e Società
Emerge dall'ultima edizione di Africamediata, report di Amref e Osservatorio di Pavia
L’Africa sui media italiani: un continente senza società civile
Attivisti del continente sentiti nello 0,1% dei casi dai nostri tg che parlano della regione
23 Maggio 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 5 minuti
Immagine dal profilo Flickr di Insure Our Future

Esiste una società civile nei paesi dell’Africa? Normale che vi facciate questa domanda, se la vostra principale fonte di informazioni sul continente è la televisione italiana. Le emittenti nostrane infatti, non danno praticamente mai la parola alle attiviste e agli attivisti della regione. Raccontare società che lottano, si interrogano e cambiano sembra non interessare molto. L’Africa è narrata come un continente dove non ci si batte per qualcosa ma da cui si cerca soprattutto di andare via, punto.

Valutazioni che nascono dalla lettura di Africamediata 2024, l’ultima edizione del rapporto annuale della ong Amref su come i media italiani raccontano il continente di là dal Mediterraneo. Il volume è curato dall’Osservatorio di Pavia, istituto di ricerca indipendente specializzato nell’analisi dei media con l’obiettivo di «salvaguardare il pluralismo sociale, culturale e politico».

Nel suo ultimo report, quasi 100 pagine di analisi e infografiche, Amref mostra come l’attenzione nei riguardi della società civile africana da parte dei media e soprattutto della nostra tv sia pochissima. E ancora minore quando i rappresentanti di questa società civile sono donne. Una dinamica questa, che era già balzata all’attenzione in occasione della presentazione del Piano Mattei. Pochi giorni prima che il governo della primo ministro Giorgia Meloni spiegasse i – a dire il vero pochissimi – dettagli dell’iniziativa, oltre 70 organizzazioni del continente avevano lamentato di non essere state ascoltate e avevano chiesto un maggior coinvolgimento in una lettera indirizzata ai vertici dello stato.

0,1%

Per avere un’idea più precisa, basta guardare i dati, premettendo che gli stessi autori del report sottolineano come la definizione di attivista usata per le rilevazioni possa a volte non essere impiegata anche per persone che di base svolgono comunque attività di promozione o mobilitazione sociale, e quindi sfuggire all’analisi. I numeri, appunto: su un campione di 50.000 persone che hanno trovato spazio di espressione in un telegiornale della fascia oraria più seguita solo 376 sono state persone africane e di queste, gli attivisti sono stati 55, ovvero lo 0.1% del totale. Percentuale infinitesimale che diventa praticamente invisibile se si guarda alle attiviste, che sono poco più di un quinto degli attivisti intervistati. Una persona su 919 è quindi un esponente di una realtà della società civile africana mentre solo una su oltre 4mila è una donna. Di percentuale in percentuale, colpisce il fatto che solo lo 0,2% della popolazione intervistata sia costituita da italiani di origine straniera.

I numeri diventano appena più confortanti spostandosi sui programmi di informazione che non siano tg e su quelli di infotaiment. Esponenti dei movimenti social africani hanno partecipato al 3,2% delle 1.515 trasmissioni prese in esame: 99 persone in 48 puntate, di questi, il 35% erano donne. I prodotti televisivi che hanno offerto maggior spazio ad attivisti e attiviste africane sono entrambi di Rai 3: Presa Diretta e Tg3 Mondo. Diverse le storie raccontate al pubblico italiano: dalle lotte dei movimenti Lgbt+ di Kenya e Uganda contro le leggi repressive che vigono nei due paesi ai rischi che corrono i giornalisti del Corno d’Africa e in modo particolare quelli che lavorano nel Sudan dilaniato da oltre un anno di guerra civile.

Più in generale, i temi scelti come focus quando vengono interpellati gli attivisti sono in un quarto dei casi l’arte e la cultura. In questo senso, nel 2023 ha giocato un ruolo importante il successo riscosso dal film Io, capitano di Matteo Garrone, che racconta con attori africani la storia di un viaggio dal Senegal alle coste italiane. Mentre ambiente e sanità, per fare esempi di alcuni classici campi di mobilitazione, sono fermi al 3,8 e all’1,8% del totale. Questi dati assumono maggiore rilevanza se si tiene in conto che nel 2023 le notizie a tema africano sui telegiornali sono state 3,457, il dato più alto dal 2019. Certo, non c’è molto equilibrio, il 77% delle notizie è dedicata a fatti che avvengono in Italia o in Europa e l’62% è a tema immigrazione. Solo il 23% delle notizie si svolge nella cornice africana. Resta comunque un elemento: l’Africa viene raccontata, ma senza ascoltare gli africani.

Eppure, evidenzia Bitania Lulu Berhanu, direttrice del programma di sostegno all’attivismo giovanile e femminile Y-ACT Amref, «l’Africa rappresenta la gioventù, per eccellenza: il 70% degli 1,8 miliardi di giovani del mondo vive in Africa subsahariana. Questo rappresenta innanzitutto una sfida ma è soprattutto un’opportunità per favorire finalmente uno sviluppo sostenibile». Berhanu aggiunge: «C’è un gruppo  in particolare che sta lottando con tenacia: le ragazze. Le barriere contro cui si stanno ancora scontrando sono tante e radicate nel tempo. I limiti e le difficoltà non riescono però ad arginare la forza e l’energia di queste giovani, desiderose di guidare il proprio continente verso una nuova era, all’insegna dei diritti».

L’Africa su carta: solo immigrazione 

Fra gli ambiti toccati dal report Amref ci sono anche i quotidiani. Le sei grandi testate prese in esame da Amref e dall’Osservatorio di Pavia – La Repubblica, il Corriere della Sera, La Stampa, Il Giornale, Avvenire e Il Fatto quotidiano – hanno riferito di 1.171 notizie a tema africano, per una media di 16 al giorno, tre in più di quanto registrato nel 2022. Il 75% delle notizie è ambientato in Italia o in Occidente e l’80% è a tema immigrazione. Solo il restante 25% si svolge in Africa: il tema più coperto è sempre la migrazione (42%), seguito da guerra e terrorismo (22%).

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Economia Politica e Società Sud Sudan
La notizia di un accordo tra Juba e una società di Dubai smentita dal ministro degli Interni
Sud Sudan: un prestito emiratino di 12,9 miliardi di dollari ripagato dal petrolio
23 Maggio 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 4 minuti
Impianto petrolifero nello stato di Unity (Credit: Eye Radio)

Alle già tante preoccupazioni che riguardano il futuro del Sud Sudan se ne aggiunge una nuova. Da giorni circola la notizia, smentita ieri dal ministro dell’Informazione Michael Makuei, della firma di un accordo per un prestito da 12,9 miliardi di dollari versati da una società emiratina, per ripagare il quale il governo impegnerebbe la maggior parte delle sue entrate petrolifere (che rappresentano il 29% del suo Pil) per 20 anni.

Un rapporto redatto da un gruppo di investigatori delle Nazioni Unite per il Consiglio di Sicurezza – che dovrebbe essere pubblicato a breve e che l’agenzia Bloomberg ha avuto modo di esaminare – rivela che i termini del prestito, negoziato a margine del vertice COP28 sul cambiamento climatico a Dubai, sono stati firmati dall’allora ministro delle Finanze Bak Barnaba Chol (sostituito dal presidente Salva Kiir a marzo) e da Hamad Bin Khalifa Al Nahyan, presidente del Dipartimento dei progetti di Hamad Bin Khalifa (HBKDOP), una società poco conosciuta gestita da un lontano parente della famiglia reale di Abu Dhabi.

L’accordo equivale a quasi il doppio del Pil del Sud Sudan e circa cinque volte l’attuale debito estero del paese, e rappresenterebbe il più grande prestito garantito dal petrolio che il paese abbia mai sottoscritto.

Non è chiaro se la prima tranche, del valore di 5,24 miliardi di dollari, sia già stata erogata.

Il documento delle Nazioni Unite citato da Bloomberg afferma inoltre che il 70% del prestito sarebbe destinato a progetti infrastrutturali.

Precedenti e prospettive allarmanti

Il Sud Sudan è un paese a lungo razziato dalle élite politico-militari che lo governano. Che hanno attinto a piene mani proprio dai proventi dell’export petrolifero, come ha in più occasioni documentato l’organizzazione The Sentry (del Progetto statunitense Enought!), il cui ultimo rapporto, del febbraio 2023, denunciava proprio un maxi scandalo su prestiti milionari garantiti dal petrolio. Anche allora i finanziamenti arrivavano da aziende degli Emirati Arabi Uniti.

A caccia di dollari

Dieci giorni fa il governatore della Banca centrale, James Alic Garang, prevedeva un aumento dell’inflazione e un indebolimento della sterlina sudsudanese a seguito del continuo calo delle riserve valutarie, evidenziando la profondità dei problemi economici che la nazione deve affrontare in vista delle elezioni generali previste per dicembre.

Evidentemente, grazie al prestito emiratino Juba spera di tamponare la carenza di preziosa valuta estera causata dal calo delle entrate derivanti dalla produzione di petrolio, che ha portato il governo a sospendere – e non per la prima volta – il pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici.

E questo è un altro aspetto critico, perché la principale fonte di entrate della nazione, le riserve petrolifere, ha avvertito ancora Garang, sono ai “minimi storici”, alcuni pozzi sono esauriti e la guerra nel vicino Sudan ha bloccato l’oleodotto che permette l’esportazione del greggio.

Un quadro questo, che solleva molti dubbi sulle reali capacità della nazione di ripagare il prestito.

A maggior ragione se si considerano le continue difficoltà del governo a soddisfare gli impegni finanziari e a saldare i debiti precedentemente contratti.

“Il Sud Sudan ha una storia problematica di accordi di questo tipo e ha perso cause giudiziarie per mancato rimborso”, ricorda il giornalista kenyano Kennedy Wandera sul suo profilo X. “Ha perso una causa presso il Centro internazionale per la risoluzione delle controversie sugli investimenti, derivante da un prestito di 700 milioni di dollari ricevuto dalla Banca nazionale del Qatar nel 2012”, per il quale è stato condannato a pagare più di 1 miliardo di dollari.

“Il governo del presidente Kiir – prosegue Wandera – deve inoltre 151,97 milioni di dollari alla Banca per il commercio e lo sviluppo dell’Africa orientale e meridionale, derivanti da un precedente accordo legato al petrolio”.

A fronte di questo quadro sconsolante, inquieta notare invece il continuo aumento della spesa militare, salita del 108% nel 2022 e di un ulteriore 78% nel 2023, per un importo complessivo di 1,1 milioni di dollari.   

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Chiesa e Missione Politica e Società Zambia
Il ministro degli Interni chiede scusa per l’irruzione nella diocesi durante un incontro tra mons. Mulenga e l’ex presidente
Zambia: il vescovo di Kabwe incontra Lungu, irrompe la polizia
23 Maggio 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti
L'ex presidente dello Zambia Edgar Lungu

Il 17 maggio scorso la polizia dello Zambia ha fatto irruzione nell’ufficio del vescovo della diocesi di Kabwe, Clement Mulenga, interrompendo un incontro tra il prelato e l’ex presidente Edgar Lungu.

Il gesuita padre Leonard Chiti, Superiore Provinciale dei Gesuiti dell’Africa Australe, informato del fatto, si è detto «sconvolto» dall’operazione della polizia, la quale ha accusato l’ex presidente e il vescovo cattolico di aver tenuto un incontro illegale. «Il nostro sistema di sicurezza è esplicito – ha detto un poliziotto a mons. Mulenga – la polizia deve essere informata quando arriva qualcuno».

Il vescovo ha risposto dicendo che, come pastore, le sue porte sono aperte a tutti, indipendentemente dall’appartenenza politica, religiosa o dall’etnia. «Questa è una chiesa, un ufficio pubblico che ha il dovere di ricevere chiunque prenda un appuntamento – ha replicato mons. Mulenga – le persone vengono qui e se vogliono condividere qualcosa con me sono libere di farlo».

E ha aggiunto: «Non sono un politico, sono una persona religiosa. Non ho niente a che fare con la politica ma tutto a che fare con la vita cristiana. Ogni essere umano che prende appuntamento ha il diritto di vedermi, voi inclusi».

Il Provinciale dei Gesuiti, dal canto suo, ha dichiarato: «L’arroganza e l’insolenza mostrate dalla polizia non possono essere tollerate in una società come la nostra che di fatto si definisce cristiana».

Ha affermato inoltre che l’azione della polizia costituisce una violazione dei diritti umani, facendo eco a un sentimento già espresso dalla Commissione per i diritti umani del paese.

Il 20 maggio la presidente della Commissione, Pamela Towela Sambo, aveva già messo in guardia la polizia dall’abuso della legge sull’ordine pubblico. Contestando l’invasione dell’ufficio vescovile, ha osservato che lo Zambia è una democrazia che garantisce il diritto alla libertà di associazione e riunione.

Anche diversi politici si sono uniti alla condanna dell’operazione. Il governo ha in seguito chiesto scusa alla Chiesa cattolica per quanto accaduto.

Il ministro degli Interni e della Sicurezza interna Jack Mwiimbu ha descritto l’incidente come “sfortunato e deplorevole”: «Il governo ha a cuore il buon rapporto tra lo Stato e la Chiesa e non sostiene molestie immotivate nei confronti di nessuno, tanto meno del clero».

«Vorremmo chiedere sinceramente scusa alla Chiesa cattolica – ha aggiunto Mwiimbu – e in particolare al vescovo Clement Mulenga della diocesi per l’incidente accaduto a Kabwe».

Padre Chiti ne ha approfittato per lanciare un appello alla politica, raccomandando «l’avvio di un dialogo tra i partiti dello Zambia per risolvere le tensioni che si stanno verificando in questo momento nel nostro spazio politico». «Credo – ha aggiunto – che una tale linea di condotta eviterebbe il rischio che si ripetano eventi simili in futuro, soprattutto mentre ci avviciniamo alle elezioni generali del 2026».

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