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Economia Etiopia Kenya Politica e Società Somalia
Africa orientale / Tensioni Somalia-Etiopia
Il Kenya propone un trattato regionale sull’accesso al mare
L’ipotesi di un protocollo che definisca i modi in cui gli stati del blocco IGAD senza sbocco marittimo possono accedere ai porti per ragioni commerciali, attualmente al vaglio dei paesi interessati, potrebbe contribuire a una de-escalation delle tensioni tra Addis Abeba e Mogadiscio e dell’intera macro-regione. Nairobi punta anche al rilancio del progetto Lapsset
24 Aprile 2024
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 5 minuti

L’accesso al mare è certamente una delle questioni più scottanti per la regione che si estende dal Corno all’Africa orientale, dove diversi paesi – Etiopia, Rwanda, Burundi, Uganda, Sud Sudan – hanno confini solo terrestri.

In Etiopia – il secondo paese per numero di abitanti e una delle economie in più veloce crescita del continente, nonostante l’instabilità che lo caratterizza – l’accesso diretto al mare è considerato come fondamentale per lo sviluppo economico ed è tra le massime priorità del governo, come ha più volte dichiarato il primo ministro Abiy Ahmed.

All’inizio di quest’anno il governo di Addis Abeba ha pensato di poter risolvere il problema grazie ad un accordo con il Somaliland, paese che si dichiara indipendente dal 1991, ma che è considerato come regione autonoma della Somalia non solo dal governo di Mogadiscio, ma anche dalla comunità internazionale.

Il patto prevede l’affitto per 50 anni di una ventina di chilometri di costa attorno al porto di Berbera per stabilirci una base della marina militare e attività commerciali, in cambio di un futuro riconoscimento dell’indipendenza.  

Come era prevedibile, l’intesa ha provocato un grave stato di tensione con la Somalia che è sfociato, all’inizio di aprile, nell’espulsione dell’ambasciatore e nella chiusura delle rappresentanze consolari etiopiche nel paese.

L’idea di consegnare la sovranità di un tratto strategico di territorio ad un paese straniero per mezzo secolo non è piaciuta neppure nello stesso Somaliland, tanto che i parlamentari hanno chiesto il ritiro dell’accordo già firmato dal presidente, perché, a loro parere, è contrario all’interesse del paese. E dunque, per ora, il disegno di Abiy è stato bloccato.

Direttamente interessato all’intesa marittima in discussione anche Gibuti, i cui due porti, quello storico di Gibuti e quello più recente di Tadjoura, hanno assicurato la quasi totalità del traffico commerciale dell’Etiopia dagli anni Novanta – precisamente dall’indipendenza dell’Eritrea – costituendo un’entrata notevole per il bilancio del paese. L’apertura di un’altra via potrebbe tradursi in una perdita secca per l’economia gibutina.

L’ipotesi di un trattato regionale

Sembra dunque che la questione dell’accesso al mare dell’Etiopia non possa essere risolta sbrigativamente, con un accordo bilaterale.

Lo pensano anche gli altri paesi della regione, e in particolare il Kenya, che dopo aver consultato Gibuti e l’IGAD, l’organizzazione regionale per lo sviluppo, ha recentemente avanzato l’idea di un trattato regionale che definisca i modi in cui gli stati del blocco con confini solo terrestri possono accedere ai porti per ragioni commerciali.

Secondo Korir Sing’oei, sottosegretario al ministero degli Esteri di Nairobi ed esperto di diritto internazionale, l’IGAD avrebbe il ruolo diplomatico e la capacità politica per formulare un simile trattato che allenterebbe nell’immediato il pericoloso contenzioso tra Mogadiscio ed Addis Abeba, garantendo la sovranità territoriale della Somalia e un accesso al mare stabile e sicuro all’Etiopia. Inoltre contribuirebbe in modo significativo alla stabilità dell’intera zona.

L’idea è stata discussa alla metà di aprile a Nairobi dai presidenti di Kenya e Somalia, William Ruto e Hassan Mohamud. Anche il primo ministro etiopico la starebbe esaminando. Se fosse considerata in modo positivo, si passerebbe alla fase dell’elaborazione del trattato.

Intanto Kenya ed Etiopia stanno rafforzando i propri rapporti diplomatici ed economici. Lo scorso febbraio Abiy Ahmed è stato in visita ufficiale a Nairobi dove sono stati siglati “Sette superbi protocolli d’intesa”, come titolava il Daily Nation il 29 febbraio.

Torna in auge il Corridoio Lapsset

Tra l’altro, è proseguita la discussione su come facilitare il traffico commerciale tra i due paesi, compreso l’uso del porto kenyano di Lamu. Il ministro etiopico dei Trasporti e della Logistica, Alemu Sime, in un’audizione al parlamento di Addis Abeba, aveva già sottolineato l’intenzione di differenziare le rotte commerciali per ridurre la sua pesante dipendenza dai porti di Gibuti.

Aveva proseguito dichiarando che il porto di Lamu avrebbe potuto essere usato, tra l’altro, per esportare bestiame e altri prodotti agricoli attraverso il confine meridionale e dunque facilitando le regioni a sud del paese. I primi beni importati, invece, dovrebbero essere i fertilizzanti che dovrebbero arrivare a Lamu prossimamente.

Lamu, sulla costa del Kenya, in prossimità del confine con la Somalia, è il terminal marittimo del complesso di infrastrutture conosciuto come Lapsset Corridor che dovrebbe facilitare i movimenti di uomini e merci di Etiopia e Sud Sudan verso il Kenya e la costa dell’Oceano Indiano, facilitando le comunicazioni e lo sviluppo nella regione.

L’imponente progetto prevede la modernizzazione e l’ingrandimento del porto di Lamu, la costruzione di autostrade, oleodotti, ferrovie, aeroporti, centri urbanizzati con strutture moderne per l’accoglienza, l’istituzione di zone economiche speciali e il rafforzamento dei servizi necessari, come la produzione e distribuzione di energia elettrica.

La sua realizzazione procede a rilento per cause diverse, tra cui: la crisi economica dovuta alla pandemia e ai conflitti in Ucraìna e a Gaza, che hanno un forte impatto sulla regione; i problemi interni ai diversi paesi coinvolti, in particolare l’instabilità in Etiopia e in Sud Sudan; la sicurezza, dal momento che la zona è influenzata dalle attività terroristiche del gruppo qaedista somalo al-Shabaab.

I problemi suscitati dall’accordo tra l’Etiopia e il Somaliland potrebbe essere un punto a favore per la velocizzazione dei progetti del Lapsset Corridor. Non è neppure da escludere che il trattato proposto dal Kenya lo consideri come una sorta di “progetto pilota” da estendere anche ad altri paesi della regione e con simili terminal in altri punti della costa dell’Oceano Indiano.

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Ambiente Economia Pace e Diritti
Il business dei crediti di carbonio ancora sotto accusa
Kenya: la Northern Rangeland Trust e il controverso progetto NKRCP
Dopo il caso delle comunità ogiek nella foresta Mau, un altro progetto per il commercio dei crediti di carbonio è contestato dalle popolazioni locali che lamentano la perdita di sovranità su vasti territori consegnati alla gestione di compagnie straniere
16 Maggio 2024
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 6 minuti

Alcune settimane fa la pagina degli affari del Daily Nation, il quotidiano più diffuso del Kenya, ha pubblicato un articolo sui crediti di carbonio dal titolo eccitante: Pastoralists earn Sh1.7bn from carbon credits in three years (Pastori nomadi guadagnano 1,7 miliardi di scellini (12,6 milioni di dollari, ndr) in 3 anni per i crediti di carbonio).

È il risultato vantato dalla Northern Rangelands Trust (NRT), organizzazione che si presenta come una rete di 45 riserve naturalistiche comunitarie – poste in gran maggioranza nel nord del Kenya, con una recente espansione in Uganda – il cui obiettivo dichiarato è proteggere l’ambiente e la fauna selvatica attivando le comunità locali. Interessante notare che tra i clienti del progetto si trovano Meta Platforms, Netflix e la banca inglese NatWest.

L’operato della NRT è stato analizzato già alla fine del 2021 in un rapporto dell’Oakland Institute – Stealth game. “Community” conservancies devastate land & lives in northern Kenya (Partita segreta. Le riserve “comunitarie” devastano terra e vite nel Kenya settentrionale) in cui si sostiene che le riserve gestite dalla NRT sono in realtà territori privatizzati a scopi turistici a scapito dei diritti della popolazione locale che viene di fatto privata dell’uso della propria terra ancestrale. Nel documento le testimonianze sono innumerevoli.

Il progetto NKRCP

Tra i numerosi progetti della Northern Rangeland Trust, uno riguarda il business dei crediti di carbonio. È il Northern Kenya Rangelands Carbon Project (NKRCP), descritto dai titolari come il più importante del genere al mondo, che si propone “di rimuovere dall’atmosfera 50 milioni di tonnellate di CO2 nell’arco di 30 anni – l’equivalente dell’emissione annuale di 10 milioni di macchine – e di generare centinaia di migliaia di dollari per le comunità locali”.

Lo “strumento” usato per intrappolare l’anidride carbonica è il terreno di 14 riserve comunitarie che si estende per 1,9 milioni di ettari. Di fatto si tratta del terreno di pascolo di 14 comunità di pastori che vivono di allevamento brado, in genere comunità di popoli nativi come i maasai e altri meno noti.

Per poter aumentare la quantità di anidride carbonica bloccata nel terreno (che ne bloccherebbe di suo naturalmente), il progetto prevede di cambiare le abitudini di pascolo, introducendo una rotazione per permettere una riabilitazione del terreno e una crescita più abbondante dell’erba.

Nella pagina web del progetto si legge che le attività e i risultati sono stati analizzati da Verra, una delle compagnie che verificano gli standard dei crediti di carbonio offerti sul mercato, e ha ricevuto la garanzia di conformità, il Verified Carbon Standard (VCS), nel 2020.  

Nello stesso anno è stato anche premiato con il Triple Gold Status dalla Climate, Community and Biodiversity Alliance (CCBA). Un altro premio al progetto è stato assegnato a COP27, nel 2022. Poi la cronologia si ferma, e ne possiamo presumere il motivo.

Il progetto è stato indagato in una ricerca di Survival International, organizzazione che si occupa dei diritti dei popoli nativi, pubblicata nel marzo del 2023 e di cui anche Nigrizia ha diffuso i risultati.

Il titolo – This people have sold our air (Questa gente ha venduto la nostra aria) – chiarisce la percezione che le comunità interessate hanno del progetto, mentre il sottotitolo spiega la metodologia di attuazione – Blood carbon: how a carbon offset scheme makes millions from indigenous land in northern Kenya (Carbonio insanguinato: come uno schema per crediti di carbonio produce milioni (di dollari, nrd) dalla terra delle popolazioni indigene nel Kenya settentrionale).

Dopo la diffusione del rapporto, la stessa Verra ha sospeso il certificato di conformità in attesa di accertamenti che probabilmente non sono ancora finiti, dal momento che sulla pagina web ufficiale non se ne fa menzione.

Le voci delle comunità locali

La metodologia di attuazione delle attività previste potrebbe però non essere cambiata, almeno a giudicare da un recente articolo di Semafor Africa, un sito indipendente di notizie dal continente africano. Il titolo Communities in Kenya fight carbon project that sold credits to Meta, Netflix ne mette in evidenza il rifiuto da parte delle comunità interessate che affermano di averne avuto scompaginata la vita e precluso l’accesso alla terra ancestrale.

L’articolo riporta le considerazioni di attivisti locali sulle ragioni delle comunità. Una riguarda la terra: “La recinteranno e ci diranno che sconfiniamo… Abbiamo i nostri modi tradizionali di allevare e pascolare il bestiame. È necessario che rispettino il sapere indigeno”.

Altri riguardano il mancato coinvolgimento della popolazione nelle decisioni riguardanti il progetto e l’informazione preventiva sui suoi scopi. La NRT afferma però di avere lettere di consenso adeguatamente firmate. Il problema è sapere da chi, perché e come quelle firme sono state ottenute. 

Nessuna delle testimonianze riportate cita i benefici economici del progetto. Ognuna delle comunità interessate avrebbe ricevuto 324mila dollari per due anni consecutivi, il 2022 e 2023. Una montagna di soldi nelle zone rurali del Kenya, in particolare per le popolazioni pastorali indigene, le più povere ed emarginate del paese. Sarebbe interessante sapere chi e per che cosa ne ha deciso l’uso.

Se non si lavora sulla partecipazione della popolazione, dice l’autore dell’articolo, questo genere di progetti possono essere più dannosi che utili. Tutti i progetti, per la verità, ma in particolare quelli che toccano l’uso della terra, i mezzi di sussistenza e i saperi tradizionali.

Business pericoloso

Altre considerazioni, in un certo senso anche più preoccupanti, vengono accennate nell’articolo. Amos Wemanya, esperto di Power Shift Africa, autorevole organizzazione ambientalista africana, parla di possibili conflitti per l’uso della terra dovuti alla corsa alla capitalizzazione dei crediti di carbonio.

Per quanto riguarda il Kenya, l’articolo cita il caso degli ogiek, abitanti della foresta Mau, nella Rift Valley, che affermano di essere minacciati di espulsione per il disegno governativo di usare quel territorio per i crediti di carbonio.

Wemanya accenna anche alla possibile perdita di sovranità su vasti territori consegnati alla gestione di compagnie straniere che commerciano in crediti di carbonio.

I paesi africani, conclude, che stanno gestendo crisi climatiche sempre più devastanti in minima parte provocate dalle proprie emissioni, dovrebbero invece pretendere fondi a dono dai paesi e dalle compagnie che più inquinano l’atmosfera piuttosto che impegnare il proprio territorio per uno scambio sul mercato finanziario che può essere molto rischioso.

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Conflitti e Terrorismo Congo (Rep. dem.) Economia Rwanda
Kinshasa torna a denunciare il saccheggio delle sue risorse da parte di Kigali
La Rd Congo chiede un embargo sulle esportazioni di minerali dal Rwanda
16 Maggio 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 2 minuti
Coltan

Il governo della Repubblica democratica del Congo torna a fare pressione per un intervento della comunità internazionale nei confronti del Rwanda, accusato di saccheggiare le risorse minerarie congolesi per mezzo della milizia M23, attiva nella provincia orientale del Nord Kivu.

Lo fa con un appello della ministra delle Miniere, Antoinette N’Samba Kalambayi, che lo scorso 8 maggio ha chiesto un embargo globale sulle esportazioni di minerali dal Rwanda.

“Tutti i prodotti minerari del Rwanda dovrebbero essere considerati ‘minerali di sangue’ perché la loro vendita alimenta il conflitto nella parte orientale della Rd Congo”, si legge nel comunicato.

“Tutte le parti interessate, compresi i consumatori finali dei prodotti minerari devono impegnarsi a rispettare una catena di approvvigionamento responsabile e deve essere imposto un embargo contro il Rwanda”.

“Questa opzione – prosegue l’appello – ha il vantaggio di frenare il finanziamento dei conflitti attraverso i minerali, ripristinare la fiducia delle parti interessate, proteggere i legittimi interessi economici dello Stato e mitigare le violazioni dei diritti umani da parte di gruppi armati ed eserciti stranieri”.

Alle accuse lanciate nei suoi confronti da Kinshasa e dalle Nazioni Unite, Kigali ha sempre risposto negando un suo coinvolgimento nelle attività dell’M23, protagonista di un’avanzata militare in territorio congolese che ha portato la milizia all’occupazione, all’inizio di maggio, delle più grandi miniere di tantalio del paese.

Ad avvalorare le accuse anche un rapporto pubblicato nel luglio 2022 dall’organizzazione Global Witness nel quale si denunciava che il 90% del coltan, dello stagno e del tungsteno esportati dal Rwanda provenivano dalla Rd Congo.

Più di recente dati elaborati dall’agenzia Ecofin hanno certificato che il Rwanda, seppur praticamente sprovvisto di miniere di coltan, nel 2023 – e per la quinta volta dal 2024 – è risultato esportare più quantitativi di questo minerale, essenziale nell’industria elettronica, della Rd Congo: 2.070 tonnellate, contro le 1.918 tonnellate attribuite a Kinshasa.

L’appello della ministra delle Miniere congolese fa seguito a una serie di interventi di pressione del governo nei confronti di ‘agenti esterni’ direttamente o indirettamente coinvolti mercato dei minerali. Tra questi il colosso Apple, accusato di impiegare minerali che si ritiene siano contrabbandati dal Congo.

Sotto accusa anche l’Unione Europea per un protocollo d’intesa di cooperazione sulle materie prime ‘critiche’ firmato con il Rwanda, nell’ambito della strategia europea di investimenti Global Gateway.

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Migrazioni Pace e Diritti Politica e Società
Presentata l’alleanza delle ong di terra e di mare. A fine mese a Rebbio il manifesto comune per la libertà di movimento
Migrazioni: nasce Freedom of movement solidarity network
16 Maggio 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 2 minuti

Si chiama Freedom of movement solidarity network e mette insieme diverse realtà che si occupano di migrazioni attive, quelle realtà, spesso ong, che per terra e per mare, si impegnano a garantire la libertà di movimento alle persone che cercano di passare i confini; quelle frontiere che spesso rendono l’attraversamento illegale perché manca il passaporto giusto per poterlo fare.

È la risposta all’approvazione, avvenuta lo scorso aprile da parte dell’Europa, del Patto asilo e immigrazione che esternalizza le frontiere, accorcia la presa in carico delle richieste di protezione, aumenta i rimpatri e i rinforzi economici per i respingimenti. Un patto siglato alla vigilia delle elezioni europee, con cui si vuole assicurare che i confini saranno blindati dalla “invasione”, che Fortezza Europa sarà protetta.

Le associazioni riunite in questo network hanno scritto un manifesto sulla libertà di movimento che verrà presentato il 29 e 30 giugno a Rebbio, la località che confina con la Svizzera e che è stata culla di questo progetto di cui ha parlato ieri Andrea Costa di Baobab Experience, una delle realtà parte del network insieme al Collettivo rotte balcaniche, la triestina Linea d’ombra, Kitchen on Borders, Refugees in Lybia, Resqpeople, Sea Watch e altre.

Durante la conferenza stampa presso la sede della Stampa Estera a Palazzo Grazioli ieri, gli aderenti al network hanno sottolineato la necessità di denunciare ancora le pratiche quotidiane di violenza ai confini, ma anche di autodenunciarsi, di dichiarare pubblicamente che si è scelta la disobbedienza civile, chiedendo che cambi la narrazione dell’invasione, che si mettano in sicurezza le rotte migratorie. Questo l’obiettivo dell’alleanza tra ong di terra e di mare.

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Politica e Società Sudafrica
Intervista al politologo Rocco Ronza, su cosa è in gioco alle elezioni presidenziali del 29 maggio
IntrAfrica podcast / Sudafrica: la crisi dei 30 anni della nazione arcobaleno
15 Maggio 2024
Articolo di Brando Ricci
Tempo di lettura 2 minuti

Promessa tradita o normale transizione politica in un sistema democratico? Se guardiamo in filigrana il declino dell’African National Congress che guida il Sudafrica da trent’anni, quale immagine emerge? Nel 1994 il Sudafrica guidato da Nelson Mandela riuscì in un miracolo politico: il secolo breve, quello dei genocidi e delle guerre mondiali, non si concluse con una nuova, terribile guerra civile. Il paese riuscì a superare, senza violenza diffusa, tre decenni di segregazione razziale istituzionalizzata, l’apartheid.

A 30 anni di distanza, il sogno di Mandela sembra appannato: l’Anc, consumato dalla corruzione, si dimostra incapace di soddisfare anche alcuni tra i bisogni più elementari della popolazione. 

Mentre le disuguaglianze che rendevano possibile l’apartheid non sono state cancellate. Anzi. Ma le domande che ci stiamo ponendo non hanno risposte semplici: e a dimostrarlo potrebbero essere le stesse urne, che più che suggellare un fallimento potrebbero finire per battezzare una nuova, sicuramente complessa, coalizione di governo. 

E che potrebbero provare quindi, che la lotta di liberazione non è un assegno in bianco per l’eternità. E che il sistema democratico sudafricano, con tutti i suoi limiti, funziona.

Ne parliamo con Rocco Ronza, politologo, docente presso l’università Cattolica e Aseri e membro del programma Africa dell’Ispi.

La puntata è a cura di Brando Ricci, con la produzione audio di Roberto Valussi.

Per orientarsi nella puntata:

02:28 – Il lento declino dell’Anc

04:53 – La promessa tradita della rainbow nation? 

06:39 – Che governo aspettarsi dalle elezioni?

11:04 – Il Sudafrica sempre più verso i Brics?

13:20 – L’ancoraggio a ovest del paese

15:58 – Cosa vogliono gli Usa

19:16 – La mina vagante Jacob Zuma

23:17 – Le critiche al ‘’compromesso storico’’ di Mandela 

25:55 – La tenuta dell’icona Mandela

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